«Mi crederete voi quando vi dirò che questa immensa distesa di territorio è un deserto? Tuttavia nulla è più vero di ciò. Dal nord al sud, da un oceano all’altro, non si incontrano né città né villaggi, appena alcune riunioni di dimore chiamate settlements (stabilimenti) […] I soli segni di civilizzazione sono i forti o i posti di commercio, separati gli uni dagli altri da centinaia di chilometri»
Reid, T.M., I giovani viaggiatori, Casa editrice Guigoni, Milano, 1880, p. 206
Tra Ottocento e Novecento emerge l’interesse per nuovi paesi, lontani dal proprio universo usuale. Paesi considerati “vuoti”, che attendono nuove presenze; territori da “adottare” per essere resi “civili” come la terra da cui si proviene. Nei viaggi attraverso altri continenti la realtà straniera è considerata spesso in funzione della sua alterità, mezzo di rielaborazione soggettiva e di conoscenza di sé. L’Oriente, soprattutto, ne diventa il simbolo. Ma il diverso anche si fonde con l’io viaggiatore e il viaggio, quasi sempre, si svolge con un difetto prospettico: poco l’interesse reale nei confronti dei paesi visitati, più forte l’essere rivolti verso sé stessi e verso il proprio paese, senza nemmeno troppo nasconderlo. Si osserva quindi l’Oriente o le altre terre, si affronta il viaggiare, da “stranieri”, ma considerando l’altro con uno sguardo occidentale che tutto permea e che lega il mondo lontano al proprio mondo. Per esempio, nei giovani viaggiatori, sopra citato (Reid 1880), si racconta di una spedizione in Groenlandia in cui, benché si tratti di un viaggio lontano, si osservano quasi sempre i molti aspetti che riportano all’Europa.
«Il dì seguente visitammo un convento di Benedettini […] ciò che maggiormente ci colpì in questa visita fu la sala della Biblioteca, ove tre monaci erano impegnati a copiare dei manoscritti. […] quei preziosi documenti si arrestavano al secolo XV, ma che importa! la miniera è inesauribile dal punto di vista delle nostre origini» (Lemarchand E., Il segreto del Polo Nord, Casa Editrice Guigoni, Milano. 1888, pp. 97-98).
In questo strano gioco di specchi riflessi è straniero colui che parte per giungere in un altro luogo, ma è straniero soprattutto colui che si incontra. Anzi, quasi sempre, è straniero da “addomesticare”: l’identità italiana, europea, si riafferma nel confronto con la diversità, dall’incontro con “popoli senza cultura”, dai connotati fisici e psicologici che rimarcano la superiorità della stirpe bianca.
Riguardo alla rappresentazione dello “straniero”, in quanto “diverso”, tra le pagine del Fondo si rintraccia anche l’iconografia della diversità razziale, in particolare nelle sue accezioni negativizzanti, nella rappresentazione delle discriminazioni e differenze sociali e culturali ad essa connesse. In tale ambito è da citare senz’altro la presenza di ben tre edizioni de La capanna dello zio Tom di Harriet Stowe Beecher: la traduzione edita per Borroni e Scotti nel 1852, quella Muggianti 1871 con illustrazioni di Antonio Masutti, e quella della Sonzogno del 1909, illustrata da A. Gaillard. Quest’ultime due, più ricche d’immagini, presentano le figure dei protagonisti con vena realistica ma senza mancare di evidenziarne la “negritudine” dei carnati, enfatizzata anche dalla resa tipografica in cui viene spesso persa la consistenza del chiaroscuro.
Tra i più noti testi dell’Ottocento italiano di letteratura per l’infanzia, poi il Giannetto di Parravicini, uno dei best seller dell’insegnamento elementare, è altro esempio che «fornisce alcuni elementi finalizzati a comunicare al giovane lettore l’esistenza di una chiara gerarchia di “civiltà” tra le diverse popolazioni» (Cfr. Gabrielli G., Il curricolo «razziale». La costruzione dell’alterità di «razza» e coloniale nella scuola italiana (1860-1950), EUM, Macerata, 2015).